Il suono del corno di Tragga annunciò agli schiavi
la fine della giornata di massacrante lavoro alla cava. Tremila formiche dalle schiene
curve si diressero meccanicamente alle baracche sgangherate ch'erano i loro alloggi, le
facce sporche illuminate dal rosso disco infuocato che tramontava ad ovest, rattristato
per la sorte dei vecchi uomini. Aveva visto tanto dolore, quel sole, eppure mai avrebbe
immaginato che una cosa del genere sarebbe potuta accadere; la razza umana ridotta a
bestiame da lavoro, i pochi ancora liberi costretti a vivere come ombre, perennemente
braccati da una sorte che potevano soltanto sperare di eludere per il maggior lasso di
tempo possibile. Piangeva il sole, piangeva per i corpi dei malati e dei vecchi,
accatastati come legna marcia contro pareti rocciose o ammassati in enormi fosse comuni;
non potevano lavorare, di conseguenza gl'invasori li ritenevano inutili bocche da sfamare,
e se ne disfacevano senza alcuna esitazione. La sorte riservata ai bambini non era
migliore: solo a pochi d'essi era concesso di superare la fanciullezza per divenire
schiavi al pari dei loro genitori, poichè la maggior parte era usata per nutrire le
orribili belve che i Nuovi Uomini cavalcavano in battaglia, sorta d'orsi dallo sguardo
terribilmente intelligente e dai tratti del volto schifosamente umanoidi. Gelava il sangue
nelle vene udire a notte fonda i latrati di quelle cose abominevoli, ma peggio era vederle
in pieno giorno aggirarsi tra gli schiavi, con le enormi bocche eternamente sudicie del
sangue degli innocenti di cui si cibavano ed uno sguardo lascivo dipinto sulle facce
grottesche. Darlien odiava quei mostri forse ancor più dei loro padroni, ma probabilmente
soltanto perchè doveva viverci a più stretto contatto. Ricordava sin troppo nitidamente
cos'era accaduto alcune settimane dopo il suo arrivo alla cava, quando una di quelle
oscenità lo aveva inseguito fino a spingerlo con le spalle alle rocce, senza via di fuga.
Rimembrava lo sguardo bramoso, la lingua lunga e sottile che saettava viscida, il corpo
peloso fremente per l'eccitazione che precedeva il pasto. Aveva raccomandato l'anima a
tutti gli dèi dei vecchi uomini che conosceva, e che da tempo non pregava più: Osmos, il
dispensatore di coraggio, Dithenor e Falgir, protettori dei derelitti, e poi altri ed
altri ancora, in attesa che una zampa artigliata calasse sul suo petto per strapparlo a
quell'incubo ch'era la sua vita. Ma così non era stato, perchè Tragga era giunto, ed
aveva battuto la bestia con la sua frusta rossa, lunga come la coda d'un giovane drago ed
altrettanto letale. Un vecchio uomo sarebbe stato tranciato in due di netto da un colpo
come quello, ma l'animale s'era limitato ad un disgustoso latrato gorgogliante ed era
fuggito via con tutta la velocità di cui era capace. Darlien aveva odiato sè stesso nel
momento in cui aveva dovuto inginocchiarsi dinanzi a Tragga per ringraziarlo d'avergli
salvato la vita; era stato come inghiottire sterco di bue fingendo che si trattasse di
pregiatissimo caviale, come ricevere un pugno allo stomaco sforzandosi di sorridere.
Tragga era andato via soddisfatto, trascinando la frusta smisurata come un serpente appena
ucciso dopo una lunga caccia. Darlien sapeva perchè lo aveva salvato, e lo odiava per
questo. Non era stato un gesto caritatevole quello del Nuovo Uomo, ma un comportamento
dettato dalla pura convenienza, dal più inumano pragmatismo di cui quella razza sembrava
impregnata fin nel midollo. Uno schiavo in meno avrebbe significato meno velocità negli
scavi, nient'altro, e pareva proprio che Tragga ed i suoi tenessero molto a raggiungere il
proprio obbiettivo nel minor tempo possibile, anche a costo di proteggere l'insignificante
vita di un vecchio uomo.
Gens lo aspettava sulla soglia della
baracca, illuminato dalla fioca luce che proveniva dall'interno della sbilenca abitazione.
La luna era già alta nel cielo, ma la luce diurna non era ancora del tutto stata
sopraffatta dalle tenebre, e tutte le cose parevano sfumare i propri contorni nella
penombra che segnava la fine del giorno.
<< A cosa pensi, ragazzo? >> la voce di Gens lo riportò
indietro da un sogno ad occhi aperti in cui egli uccideva Tragga e liberava gli schiavi
della cava, i quali osannavano il suo nome come quello d'una divinità. Che sciocchezza. I
Nuovi Uomini non potevano essere uccisi da una nullità come lui, probabilmente non
potevano essere uccisi da niente e da nessuno. Mai ne aveva veduto uno ferito o malato, od
anche soltanto in difficoltà, da quando essi erano stati vomitati dalla Montagna del
Miasma sulle terre dei vecchi uomini, più di dieci anni orsono. Erano forse semidèi,
giunti per dare nuovo corso ad un mondo martoriato da guerre e crudeltà d'ogni genere?
Oppure erano demoni, fuoriusciti dagl'inferi per conquistare la luce del giorno da
millenni loro preclusa? Sterili congetture di questa fattura occupavano spesso la mente di
Darlien durante le ore di riposo, ma stavolta egli decise che non avrebbe seguito il corso
tortuoso e senza scampo dei propri pensieri.
<< Allora, entri oppure no? >> gridò Gens. Gens non era
come lui, Gens viveva giorno per giorno.
<< Arrivo. >> La porta della catapecchia si chiuse alle
sue spalle, ed egli si sistemò sul pavimento assieme alle altre formiche.
Alla luce della luna piena il cadavere del cane avrebbe potuto esser
scambiato per un mucchio di stracci o per un sacco semivuoto abbandonato sul terreno
erboso. L'odore non era gradevole, ma il giovane uomo di Arenai sapeva bene che i suoi
inseguitori non sarebbero andati troppo per il sottile: per loro un cane morto costituiva
un pasto più che decente. Sedette con la schiena appoggiata al tronco d'un albero,
stringendo nelle mani il forcone arruginito ch'era la sua arma. Da quella posizione
avrebbe potuto scorgere con largo anticipo l'arrivo di coloro che stava attendendo, e
prepararsi ad agire di conseguenza. Dietro di lui il limitare d'un boschetto che pareva
ospitare tutti gli uccelli e insetti notturni del mondo, a giudicare dal fracasso che ne
proveniva;dinanzi, l'estesa pianura che aveva appena percorso, costantemente braccato
dagli uomini che adesso s'era risoluto ad affrontare una volta per tutte. S'era imbattuto
nel cane vecchio e malato quella mattina, e dopo aver constatato che gl'inseguitori
dovevano essersi concessi una pausa, aveva messo fine alle sofferenze dell'animale con un
singolo affondo del forcone. Poi aveva lasciato il corpo lì, a pochi passi dall'albero
contro cui sedeva adesso, attendendo il momento del confronto.
Giunsero quando l'alba s'approssimava a disperdere le tenebre della
notte, claudicanti come morti viventi, quattro scheletri dagli abiti consunti e dai volti
crudelmente segnati da fame e malattie. Uomini-avvoltoio, disperati che si cibavano di
cadaveri, troppo deboli o inetti per procurarsi il cibo in altro modo, troppo vigliacchi
per scegliere il suicidio come atto ultimo d'un'esistenza ormai becera e inutile. Il
giovane uomo li guardò avvicinarsi senza accennare un solo movimento; anche lui era stato
veduto, e lo sapeva. Impiegarono un tempo assurdamente lungo per raggiungere il cadavere
del cane. Uno d'essi, un vecchio che pareva dover cadere in pezzi da un istante all'altro,
s'avventò sull'animale morto, spolpandolo con denti di fiera aguzzi come pugnali. Il
giovane uomo represse un brivido; mai aveva veduto zanne di lupo nella bocca d'un essere
umano. Si sforzò di fissare gli altri tre apparendo determinato, ma capì ben presto che
la farsa non avrebbe retto. Quegli infelici erano oramai più bestie che uomini, animali
guidati soltanto da un cieco istinto di sopravvivenza che aveva talmente preso il
sopravvento sulle loro leggi morali da spingerli al cannibalismo e chissà a quali altre
indicibili pratiche. Mentre il silenzio, soltanto disturbato dagli schiocchi delle
mandibole del vecchio, avviluppava i protagonisti di quella penosa scena, il giovane
d'Arenai si mise in piedi, badando bene di non compiere gesti che mettessero in allarme i
suoi avversari. Uno d'essi rivelava un passato da combattente, giacchè la sua pelle scura
era segnata da molteplici cicatrici. La più grande di queste gli attraversava interamente
il torace che un tempo doveva esser stato ampio e muscoloso, ma che adesso era scarno e
gracile come quello dei suoi compagni. Gli altri due avevano la pelle bianca come quella
dei morti, ma uno d'essi sorprendentemente lasciava trasparire, nello sguardo pur scavato
e animalesco e nei tratti del viso pur deturpato dal digiuno, origini nobiliari
assolutamente marcate e riconoscibili. Al giovane uomo tornò alla memoria una scena della
propria fanciullezza: in piedi su di uno sgabello, spolverava un gran quadro raffigurante
un uomo di mezz'età sorridente e dallo sguardo deciso ma buono. Ebbene, era sicuro che
quell'uomo nella cornice assomigliasse molto più che vagamente all'avvoltoio che aveva di
fronte, anche se naturalmente la sua memoria poteva ingannarlo.
<< Và via. >> fu proprio il disperato dalle fattezze
signorili a parlare. La sua voce era fredda come ghiaccio, e il suo sguardo lasciava
intendere che nè lui nè i suoi compagni si sarebbero lasciati intimorire dalle punte
d'un forcone male in arnese. Il giovane uomo non rispose. Rimase dov'era, con le palme
delle mani che iniziavano a sudargli. Temette che quell'inconveniente potesse costargli
caro nello scontro che di lì a poco sarebbe seguito, ma non poteva certo posare il
forcone ed asciugarsi le mani oramai madide. S'aspettava una reiterazione dell'ordine di
lasciare il campo da parte di uno dei tre avvoltoi, invece quello dalla pelle scura passò
a vie di fatto, balzandogli alla gola come una belva inferocita. Mani adunche e nodose gli
si avvinghiarono al collo come ragni, ma la stretta durò ben poco. Le punte arruginite si
fecero largo con inverosimile facilità nel misero ventre del nemico, che stramazzò al
suolo vomitando sangue. Tutto avvenne nel più completo e crudele silenzio. Gli altri due
tentarono pateticamente di circondarlo, ma era chiaro che nelle condizioni in cui
versavano non sarebbero riusciti ad avere ragione neanche d'un ragazzino. Di fronte a lui
si parò l'uomo dal nobile sguardo, mentre l'altro azzardava un attacco alle spalle
talmente lento da suscitare nel giovane un ghigno sardonico. Rimase piantato sui piedi in
modo da dare all'avversario l'illusione del successo, poi schivò il suo attacco con uno
scarto improvviso e lasciò che il manico del forcone s'abbattesse sul ginocchio ossuto
del malcapitato. L'urlo dell'avvoltoio squarciò l'irreale silenzio nel quale era finora
avvenuto lo scontro, ma ne segnò anche la fine, poichè l'altro non pareva intenzionato a
continuare. Proprio in quel momento il vecchio dai denti a sciabola sollevò la testa dal
disgustoso banchetto che lo aveva tenuto lontano dalla lotta, ed appena realizzò ciò che
doveva esser accaduto si lanciò con un ringhio all'indirizzo del giovane uomo, il quale
d'istinto protese in avanti il tridente arruginito. Era sicuro di abbattere
quell'attempato scherzo della natura al primo colpo, ma aveva fatto male i suoi conti. La
dentatura formidabile del vecchio spezzò una dopo l'altra le punte di ferro, ed il
giovane d'Arenai si ritrovò suo malgrado ad impugnare soltanto un bastone tarlato, ben
meno pericoloso dell'arma che aveva utilizzato sino a poco prima. Indietreggiò
velocemente, attendendo la prossima mossa del nemico. Era quasi ridicolo che rischiasse di
venire ucciso dal peggio in arnese di quella banda di rifiuti umani, ed avrebbe di nuovo
sorriso di sè stesso, se la situazione non fosse stata così pericolosa. Il vecchio si
preparò ad un altro assalto, ma mentre stava per lanciarsi contro il giovane, le zanne
inumane già digrignate e pronte colpire, venne fermato da un gesto del suo compagno dalle
signorili fattezze. Era chiaro a quel punto che quel figuro era il capo della banda di
disperati. Meno chiaro era perchè avesse proibito al vecchio di far fuori chi aveva
eliminato uno di loro. Passò del tempo prima che qualcosa si muovesse, a parte le mosche
intorno ai poveri resti del cane e dell'uomo-avvoltoio infilzato, poi il giovane d'Arenai
gettò a terra ciò che restava del forcone e tentò la strada delle parole.
<< Mi dispiace per lui. >> disse, indicando con gli
occhi il cadavere poco distante. Se avessero deciso di attaccarlo ora non avrebbe avuto
possibilità di cavarsela. Forse una precipitosa fuga avrebbe potuto salvargli la vita, ma
un'idea folle lo tratteneva là, ed egli capì che quell'idea era nata nella sua mente dal
primo istante in cui aveva avvistato gli uomini che adesso si trovava a fronteggiare..
<< Non avrei voluto che andasse in questo modo. >> dal
momento che i tre non rispondevano, continuò, cercando di scusarsi senza risultare
impaurito. Il suo timore avrebbe riacceso gl'istinti da predatori di quella gente come
l'odore del sangue d'un cervo avrebbe moltiplicato le forze di un puma o di un orso. Il
loro mutismo, tuttavia, lo preoccupava. Parlò ancora, giacchè non poteva fare altro e
non voleva fuggire:
<< Voglio offrirvi una possibilità. >> disse mentre la
lingua gli s'impastava. Era a corto di saliva e di fiato, ma gioì dentro di sè quando
vide dipinta sul volto dei tre un'espressione di pura curiosità.
<< Di cosa diavolo parli? >> chiese dopo un attimo il
capo. Il ragazzo d'Arenai notò che le sue guance terree s'erano leggermente imporporate,
sino a dare al volto scheletrico un colorito quasi normale.
<< Parlo di riprendervi la vostra dignità di uomini. Parlo di
smettere di mangiare cadaveri e radici, di tornare a dormire sotto un tetto invece che in
qualche squallida buca melmosa. Sappiamo tutti chi è stato a fare di voi bestie e di me
un orfano vagabondo, senza speranze nè futuro. Ebbene, se mi seguirete tenteremo di
riprenderci ciò che i Nuovi ci hanno tolto, proveremo... >>
<< Sei un pazzo furioso! >> berciò l'uomo a cui il
giovane aveva fracassato un ginocchio. Gli altri due approvarono con mugugnii d'assenso.
<< Finirai ucciso, ragazzo. >> sentenziò il capo dai
nobili lineamenti, ma nei suoi occhi il giovane uomo credette di scorgere uno spiraglio di
disponibilità, forse la fiammella d'un orgoglio perduto che ancora bruciava sotto
tonnellate di cenere. Se quella piccola scintilla veniva alimentata, pensò il ragazzo,
poteva brillare di nuovo maestosa, ed egli allora avrebbe acquisito tre compagni, poichè
era chiaro che il vecchio e l'altro uomo avrebbero seguito il capo.
<< Ucciso >> rise quasi sarcastico il ragazzo d'Arenai
<< e allora? Tenete davvero tanto alla vita che conducete, da preferire
quest'esistenza miserevole alla possibilità seppur remota di tornare ad essere uomini?
Non vi stò dicendo che ce la faremo, ma ciò che posso offrirvi è più di quanto
possiate mai sperare d'ottenere in altri trecento anni di vita da avvoltoi. Fossi in voi
ci rifletterei. >>
Era fatta. La fiamma che ardeva nel petto del capo di quei poveracci
sfavillò, violenta come la furia di un drago delle montagne. Nulla l'avrebbe mai più
soffocata, perchè ciò che non muore ritorna cento volte più forte di prima, e lo stelo
che la palude non avvelena diviene un albero che torreggia nelle acque malsane, immune ai
loro miasmi.
<< Ammesso che noi ti seguiamo, cosa hai intenzione di fare?
>>
<< C'è una cava, ad est. Andremo là. >>
<< E dopo? >>
<< Ne uccideremo uno, o magari tutti. La gente capirà che non
sono dèi ed inizierà a ribellarsi al loro dominio. >>
<< Impossibile ucciderli! >> strillò l'uomo con la
rotula spaccata. Il vecchio dai denti a sciabola si grattò il cranio con espressione
idiota e assentì.
<< Ci hai mai provato? >> fu lo stesso capo a
rispondergli, con occhi iniettati d'un sangue che pareva solo adesso tornato a circolare
nelle vene di quel corpo tutt'ossa. Il vile avvoltoio mangiatore di carogne era morto per
sempre, lasciando che il nobile animo di cui quell'uomo era dotato si riappropriasse del
ruolo che gli spettava. Non vi furono obiezioni, nè repliche. Avrebbero ucciso i Nuovi
Uomini della cava o sarebbero periti nel tentativo, ed in quel momento quello era tutto il
loro futuro.
Mirkon Solifald sollevò la lanterna al di sopra del suo capo,
illuminando il gigantesco volto di Bogoss. Con delusione riabbassò l'unica fonte di luce
su cui potesse contare in quel regno di tenebre indissolubili; il gigante di pietra
dormiva ancora. Il vecchio tornò allora con mortale lentezza a sedere sul blocco di
roccia fredda che era il suo sgabello, poggiando cautamente la lanterna sul masso che
usava come tavolo. Quella piccola luce era eterna, pensò ghignando. Come Bogoss. Come
lui. Voltò poi il capo verso la parete rocciosa. Al di là di quella barriera uomini
ridotti in schiavitù scavavano dodici ore al giorno per permettere a Nuovi conquistatori
di raggiungere ed annientare l'unica cosa al mondo che quella razza fiera e crudele
temesse. Quella cosa era Bogoss, che dormiva da ottanta secoli sotto la montagna e che
avrebbe potuto schiacciarli come scarafaggi, se solo si fosse destato. La mano pallida di
Mirkon carezzò stancamente uno dei piedi di pietra, alto come una abitazione di due
piani. La luce della lanterna disegnò strane ombre che l'uomo osservò rapito per qualche
tempo, ripercorrendo in pochi attimi mille e mille anni di vita, trascorsi a vegliare le
spoglie inerti d'un silente compagno. Rimembrava bene Mirkon quel giorno d'ottomila anni
orsono, quando l'aria era divenuta zolfo e le acque avevano ribollito come lava ardente,
mentre nel cielo comparivano gli dèi vestiti di luce sulla schiena del gigante di pietra.
Aveva toccato terra provocando un immane terremoto, poi gli dèi erano scesi tra gli
uomini ed avevano parlato con voce dolcissima, annunciando loro l'inizio di una nuova era
di prosperità e benessere. Non avevano mentito. Per tre decenni uomini e divinità
avevano vissuto in armonìa perfetta, proteggendosi vicendevolmente e beneficiando d'una
quanto mai inconsueta e reciprocamente vantaggiosa convivenza. Ma era durata poco, come
ogni cosa talmente bella da suscitare l'invidia e l'odio di chi non è ammesso a goderne.
Così, ricordava Mirkon, erano giunte dalla pioggia altre creature, bieche e spietate, che
in una guerra durata un giorno soltanto avevano spodestato le entità vestite di luce,
ricacciandole da dov'erano arrivate. Il destino di Mirkon s'era compiuto in quelle ore
tragiche e concitate, mentre a migliaia morivano i suoi simili nel vano tentativo
d'aiutare gli dèi giusti ad avere la meglio sugli usurpatori. Sulia, la madre dei profumi
delicati e delle giornate di sole, era giaciuta riversa al suolo nel Palazzo delle Perle,
trafitta orribilmente da armi che un piccolo uomo nemmeno poteva immaginare. Aveva cercato
d'aiutarla, Mirkon, ma ella gli aveva preso le mani nelle sue, parlandogli di ciò che
sarebbe stato e della missione che lo attendeva. Gli dèi vestiti di luce sarebbero un
giorno tornati sulla terra degli uomini per regnarvi ancora, ma adesso dovevano fuggire.
Essi non morivano nè invecchiavano, poichè la luce di cui erano fatti era eterna, come
tutte le cose del mondo da cui venivano, dai grandi alberi azzurri alle piccole farfalle
trasparenti che solcavano i cieli a migliaia nella stagione dei sei soli. Ma Bogoss, aveva
detto Sulia, non era come gli dèi di luce, poichè poteva essere distrutto senza la loro
protezione. Il gigante di pietra che li aveva condotti dalla razza degli uomini dormiva
nel cuore d'una montagna inaccessibile, protetto contro la crudeltà degli dèi venuti
dalla pioggia, che mai l'avrebbero trovato. Bisognava, tuttavia, che qualcuno vigilasse
sul sonno del titano di roccia, poichè era probabile che, se destato da qualche cosa,
avrebbe potuto agire violentemente contro gli amati abitanti della terra. La dèa aveva
consegnato in tutta fretta a Mirkon una pergamena sopra la quale era vergata una formula
da recitare per placare la furia di Bogoss, poi aveva poggiato un singolo, bianchissimo
dito sul petto dell'uomo, e la luce era entrata in lui, rendendolo immortale. Era stato
come rinascere, una cascata d'energia che si riversava in lui più potente di qualsiasi
forza esistente nel mondo degli uomini. Era stato bellissimo e commovente, ma quando era
tornato in sè Sulia non c'era più. Da allora mille e mille estati roventi avevano
crepato le rocce della montagna, ed altrettanti rigidi inverni le avevano coperte di neve
bianca come i capelli di Sulia, ma Bogoss mai aveva dischiuso gli occhi di marmo nè mosso
una mano grigia e gigantesca, ed il suo guardiano era invecchiato indicibilmente,
attendendo ciò che forse non sarebbe mai più accaduto.
Come un salmone emerge dalle tumultuose acque del fiume che sta
risalendo, così Mirkon tornò alla realtà dall'abisso dei propri ricordi persi in ère
ancestrali, rimpiangendo il tempo in cui la vita era splendore e libertà in compagnia
degli dèi luminosi.
<< Forse sono morti. >> disse a Bogoss. Gli parlava
spesso, anche se il gigante non rispondeva mai, ed allora lui a volte si rispondeva da
solo. Quella volta preferì non farlo. Un tonfo proveniente dall'alto l'avvertì che i
poveri uomini in catene avevano ricominciato a scavare. Presto avrebbero riportato alla
luce il colosso addormentato, ed allora il mondo avrebbe conosciuto di nuovo dopo ottanta
secoli la furia distruttrice di Bogoss, che solo la piccola pergamena nella tasca del
vecchissimo guardiano poteva placare.
II
<< Sono soltanto in due, vi dico >> per un istante Lych
osò interrompere il proprio lavoro. Gens lo fissò come se fosse pazzo.
<< Cosa diavolo fai? Continua a scavare. Se Tragga ti vede...
>>
<< Tragga non può essere ovunque. >> fu lesto a
ribattere Lych, il ghigno sdentato seminascosto dalla moltitudine di capelli arruffati che
ricadevano in avanti, celandogli buona parte del viso << Hai mai visto in giro altri
invasori, a parte lui e Shuria? Sono soli qui alla cava, anche se vogliono farci credere
d'essere in molti. Per gli dèi, gente, degnatevi d'ascoltarmi! >>
Le parole del giovane schiavo si persero nel frastuono della roccia
che veniva colpita ripetutamente dai suoi compagni, sordi ad ogni discorso di ribellione,
determinati a non farsi coinvolgere in nulla che potesse esporli al rischio d'incappare in
una delle tremende punizioni che i Nuovi Uomini sapevano infliggere. Come golem senza
spirito nè ragione sollevavano i martelli su teste dalle quali era stato strappato ogni
sogno di rivalsa, e guardavano con ostilità a chi arrecava sofferenza al loro animo
martoriato tentando di riesumare una speranza sepolta in fondo a un lago di sangue dalle
lame dei Nuovi Uomini. Lych in quel momento voleva proprio fare quello: riportare nei
cuori di quegli schiavi vigliacchi la speranza in un futuro migliore. Erano in due, alla
cava. Solo in due.
Darlien guardò Gens, che picchiava sulla roccia senza tregua, come
per scacciare dalla mente l'eco delle parole appena pronunciate da Lych. Non voleva, non
poteva Gens, imbarcarsi in quella che era pura follia suicida senza pensare alle
conseguenze. Fosse stato solo al mondo, probabilmente non avrebbe esitato, ma aveva un
figlio lì alla cava, e abbandonarlo al suo destino era cosa impossibile d'accettare per
lui. Imer, il ragazzo, gli si avvicinò proprio in quell'istante. Era poco più giovane di
Darlien, appena abbastanza forte per sollevare il martello e colpire la roccia. I suoi
sedici anni ed il fisico robusto, ereditato dal padre, avevano convinto Tragga a
risparmiargli la vita, laddove la maggioranza dei suoi coetanei era stata soppressa
perchè incapace di tornare utile agli scopi degl'invasori.
<< Torna a lavorare, figliolo. >> lo ammonì Gens
asciugandosi la fronte imperlata di sudore. Il sole del mattino inoltrato picchiava
impietoso.
<< Non tornerò a spaccare pietre, padre. >> lo sguardo
del ragazzo era fisso in quello del genitore, e questi capì ch'era giunto il momento in
cui si sarebbe rivelato un vigliacco od un eroe agli occhi dell'unico figlio che aveva.
Molti altri uomini arrestarono i martelli, incuranti del rischio che correvano. Lych
s'illuminò di speranza. Darlien sorrise, intuendo l'importanza del momento, sentendosi
vivo dopo così tanto tempo.
<< So cosa provi figlio mio >> Gens quasi balbettava,
incapace di trovare parole che non suonassero come le giustificazioni d'un pavido <<
e lo sanno anche tutti gli uomini che vedi sul versante di questo monte, sudati e
doloranti, offesi e privati della loro libertà. Ma credimi, non possiamo nulla contro i
Nuovi... >>
<< Solo due, Gens >> intervenne Lych, cogliendo il
momento giusto << soltanto Tragga e Shuria. Mi devi credere amico. >>
Arrivarono in quell'istante alcune donne recanti sulla schiena
pesanti secchi colmi d'acqua. Gli uomini bevvero con le mani l'acqua sporca, si
rinfrescarono il viso e il petto, poi tornarono a spaccare la pietra come se non fossero
stati interrotti nel mentre della più importante discussione che si fosse mai tenuta tra
quel gruppo di formiche. Per un poco s'udì solo il picchiare del ferro sulla roccia, poi
Darlien soffiò sul fuoco che stava per spegnersi, ravvivandolo quando tutti parevano
intenzionati a lasciarlo estinguersi.
<< Io sono con Lych. >> disse << Devono per forza
essere soltanto in due, giacchè mai da quando siamo qui ne abbiam visti altri. Sono due.
Devono essere due. >>
Qualcuno annuì timidamente. Molti continuarono a martellare,
cocciuti come la pietra che percuotevano. Gens scosse la testa, deciso a non farsi
trascinare dall'entusiasmo di Darlien.
<< Non importa se sono due. Non si può fare e basta.
Levatevelo dalle mente, scacciate questi sciocchi pensieri, questi sogni ad occhi aperti,
e tornate una volta per tutte alla realtà, per gli dèi! Questa è la nostra realtà
>> urlò, mostrando il martello agli altri, come per ravvedere un gruppo di stolti
<< Questa! >> colpì la roccia con tanta forza che frammenti schizzarono verso
l'alto in ogni direzione. Credeva che la sua sfuriata avesse posto finalmente fine a quel
pericoloso ciarlare, e contemporaneamente sperava d'esserne uscito in maniera dignitosa
anche agli occhi di Imer. Si sbagliava di grosso, e ne fu presto consapevole.
<< Padre >> gli occhi di Imer, neri come ebano, rimasero
fissi in quelli del genitore, mentre il ragazzo cercava dentro sè il coraggio delle
proprie parole.
<< Sei un vigliacco! >> proruppe all'improvviso, mentre
le lacrime, incandescenti di rabbia, gli rigavano il volto paffuto e stravolto
dall'emozione.
Gens lo colpì di riflesso, pentendosi del proprio gesto prima
ancora di vedere suo figlio ruzzolare in terra, con il naso sanguinante. Altre volte lo
aveva picchiato, ma in quella particolare situazione il gesto avrebbe assunto prospettive
completamente differenti. Oramai tutti gli schiavi avevano interrotto il proprio lavoro
per assistere alla scena, apparentemente dimentichi del pericolo rappresentato da un
improvviso e quanto mai probabile arrivo di Tragga, che di certo doveva aver udito le
urla. Gens s'avvicinò al suo ragazzo, tendendogli una mano per aiutarlo a rimettersi in
piedi. Imer la rifiutò.
<< Adesso >> disse, pulendosi la faccia con una manica
<< se vuoi dimostrare di non essere un vigliacco devi fare la stessa cosa a Tragga.
>>
Un'eloquente, compiaciuta occhiata passò dagli occhi di Lych a
quelli di Darlien, rimbalzò negli sguardi degli altri schiavi, si tramutò in un
mormorìo sommesso che cresceva come la marea nelle notti di luna piena. Qualcuno avrebbe
di certo detto qualcosa d'importante, se un colpo di tosse palesemente posticcio, un
segnale convenuto, non avesse indotto tutti a tornare precipitosamente al lavoro. Tragga
stava arrivando; lo videro che sopraggiungeva dal basso, tirandosi dietro la frusta
smisurata che a volte pareva viva. Lo videro, e seppero che l'avrebbero ucciso.
<< ...così risalimmo l'irto pendìo e fummo finalmente fuori
dalla Buca dei Pazzi. Sul crinale pregammo brevemente per le anime di Jader e Fluderich, i
miei cugini che non ce l'avevano fatta. Ricordo d'aver guardato mio padre: aveva il
braccio destro troncato all'altezza del gomito, e farneticava d'inferni senza fondo,
oramai privo di ragione. Sarebbe morto prima dell'alba, mentre ancora eravamo in viaggio.
Maledissi il mostro, il povero mostro umano che lo aveva ridotto in quello stato, e trovai
conforto nel forte abbraccio di mio fratello Adel, affranto quanto me. Nonostante tre
dolorose morti, la spedizione era stata successo. Avevamo tirato fuori nostro nonno, lord
Gredios, da quell'abisso abitato da incubi, e lo stavamo riportando a palazzo. >>
Il nome del capo degli uomini-avvoltoio era Orin Fannings. Era
costui il nipote del più onorevole e degno vassallo del sovrano d'Arenai, il cui nome
nome era appunto lord Gredios. Il giovane di Arenai si chiamava invece Elshan, ed aveva
appena avuto il privilegio di udire, direttamente dalle labbra di chi v'aveva preso parte,
una delle avventure più straordinarie del suo tempo. Decine erano le ballate che i
menestrelli aveano composto sulla discesa dei Fannings nella Buca dei Pazzi, innumerevoli
le leggende createsi intorno al manipolo di prodi che compì l'impresa. Adesso lui, il
figlio d'un povero servo, sedeva faccia a faccia con un eroe, e rimembrava con certezza
che l'uomo del quadro nel palazzo d'Arenai era certamente uno dei membri della nobile
casata Fannings. Il sole era oramai quasi del tutto scomparso dietro le vette di grigi e
minacciosi monti, e il fresco della sera faceva presagire una notte piuttosto rigida. Non
avevano coperte, nè tende sotto le quali ripararsi. Gli uomini-avvoltoio non avevano
nemmeno degli abiti degni d'esser definiti tali.
<< Cosa fu della tua famiglia, quando giunsero i Nuovi?
>> chiese Elshan, realmente curioso di sapere se la disfatta d'una stirpe di sangue
nobiliare poteva assomigliare a quella di una comune famiglia di sguatteri. Orin parve
rabbuiarsi, mentre scavava nella memoria disseppellendo antichi dolori.
<< Si uccisero. >> disse dopo una lunga pausa <<
Tutti tranne mio nonno Gredios. E me, naturalmente. >>
Elshan annuì, ripensando a ciò che ricordava aver visto nella
fortezza d'Arenai il giorno in cui gl'Invasori s'erano palesati sotto le mura della
capitale. Cadaveri, a decine, con i polsi squarciati e le pupille fisse ad un cielo che
mai più avrebbero guardato. Cadaveri vestiti di stracci o di gioielli, le facce pallide
così simiglianti l'una all'altra nello squallore della morte autoinflitta. Dunque era
stato così per tutti, pensò il ragazzo. Tranne che per qualche coraggioso, o folle, a
seconda dei punti di vista.
<< Vorrei che tuo nonno fosse qui, per infonderci il suo
coraggio. >> sospirò il giovane, sentendosi improvvisamente piccolo ed inutile
all'idea di doversi realmente confrontare con i Nuovi Uomini, i quali parevano dei nemici
imbattibili. Tirarsi indietro oramai non poteva, nè voleva, giacchè sarebbe equivalso a
lasciar spegnere l'ultima debole fiammella di speranza in un mondo di tenebre, ma in quel
momento la sua fiducia nel futuro era ridotta ad un granello di sabbia perso nel vento
dello sconforto che soffiava nella sua anima.
<< Oh >> fece laconico Orin, fissandolo in maniera
significativa << ma egli è qui. Credi che l'avrei mai abbandonato, dopo averlo
tratto in salvo da un inferno come la Buca dei Pazzi? >>
Elshan iniziava a sentirsi oggetto di vago dileggio. Dove diavolo
poteva essere lord Gredios, il prode capofamiglia dei Fannings, l'uomo ingiustamente
imprigionato tra i folli, se lì sotto il cielo non vedeva altri che Orin, il vecchio dai
denti a sciabola e l'uomo con il ginocchio fracassato? Orin Fannings lesse l'incredulità
negli occhi del compagno, e decise di metterlo a conoscenza della realtà.
<< Lord Gredios! >> chiamò, sollevando al di sopra del
capo metà della mela che costituiva la sua cena di quella sera.
Il vecchio balzò in piedi, digrignando le fomidabili zanne come un
cane rabbioso. Prese a barcollare in direzione dei due uomini, con un'espressione idiota
dipinta sul viso spaccato da decine di profondissime rughe. Non aveva occhi che per la
mela nella mano di Orin.
<< Cosa diavolo significa? >> chiese Elshan, seccato. Se
era uno scherzo lo trovava molto poco divertente.
<< Costui è lord Gredios Fannings. >> rispose placido
Orin, porgendo la mela alla povera cariatide, che l'ingollò in un sol boccone <<
Immagino tu sia desideroso di conoscere ciò che ridusse uno degli uomini più
intelligenti e risoluti del nostro paese nell'animale che hai davanti. >>
Elshan cominciava a pensare che non si trattasse d'un macabro
scherzo. Possibile che...
<< Come diavolo ha fatto a diventare così? >> chiese al
fine, senza staccare gli occhi dal vecchio, il quale era adesso occupato a tentare di
leccarsi le dita senza ferirsele con le abnormi zanne che gl'infestavano la bocca.
<< Vorrei saperlo anch'io. >> fu tutto ciò ch'ebbe da
rispondere Orin Fannings, trangugiando dell'idromele dalla borraccia del compagno <<
Quando, superate mille mostruose insidie, giungemmo alla misera cella dov'era tenuto il
nonno, lo trovammo già in queste condizioni. Dovevano averlo incatenato alla parete,
giacchè dalla roccia pendeva un anello d'acciao, ed uno simile serrava una delle sue
caviglie. Ma di catene non v'era traccia, tanto ch'egli si muoveva liberamente nella
stanza buia e lercia che l'ospitava da anni. >>
<< Cosa pensi sia stato della...catena? >> domandò
Elshan, sorprendendosi del tremore della sua voce.
<< Tu cosa credi ne sia stato? >> ribattè con una
smorfia Orin. << Deve averla rosicchiata, anche se non capirò mai come abbia fatto
a sviluppare delle simili fauci. Lo scherzo di un demone annoiato, forse, oppure
semplicemente della natura, di cui sappiamo così poco. >>
<< E'... pazzo? >> a questo punto il timore del giovane
d'Arenai era più che giustificato. Il vecchio saltò su come un pupazzo a molla,
spaventando a morte Elshan.
<< Ghr...e...d...osh Fff...Ff...nnigsh. No...paschiio...
>> mugugnò con voce incredibilmente stridùla, ed il sorriso distorto che seguì
quel penoso tentativo di comunicazione fu la parte peggiore del suo intervento.
Orin sorrise. Il volto scavato parve illuminarsi d'una inaspettata
bellezza sotto i raggi lunari. << Sono le uniche parole che riesce ad articolare.
>> spiegò. << E' lui >> aggiunse un attimo dopo << fidati. Mi ha
tenuto tra le sue braccia quand'era forte e capace di fronteggiare ogni situazione con
solo l'uso del suo innato ingegno. E ricorda il suo nome. Non posso sbagliarmi, Elshan.
>> lord Gredios poggiò un adunco artiglio sulla spalla esile di Orin, guardandolo
come un cane guarda il proprio padrone.
<< Non è cattivo, ma se gliel'ordino può uccidere un orso.
>>
Elshan era confuso e incredulo. Il suo sguardo vagò nella notte
stellata, soffermandosi alfine sulla sagoma del terzo avvoltoio, addormentato sotto una
coperta di foglie e rami secchi.
<< Lui chi è? >> chiese dopo un attimo.
<< L'uomo che hai reso zoppo è Calliwan Rhodax >>
rispose Orin << ed è il mio servitore personale. Siamo cresciuti insieme, sai, e lo
vedo oramai come un buon amico piuttosto che come un attendente. In altri tempi t'avrei
sgozzato senza esitazione per quello che gli hai fatto, ma adesso... >>
<< ...adesso non ci riusciresti. >> finì Elshan,
sostenendo lo sguardo del compagno. Seppe allora d'aver giudicato male quella gente. In
essa i sentimenti non erano morti, ma soltanto sopiti, nascosti ad un mondo che li aveva
resi inutili.
Orin Fannings rise, per la prima volta dopo anni, di vero gusto.
<< Probabilmente hai ragione >> disse poi << e
spero che non vi sarà mai occasione d'appurarlo. Potresti rimanere sorpreso dall'abilità
con la spada del nobile decaduto con cui stai conversando. >>
<< Allora forse mi sarai davvero utile contro i Nuovi.
>> mormorò quasi tra sè Elshan. Fece per alzarsi e cercarsi qualche foglia che lo
coprisse nel freddo della notte. Orin si raggomitolò su sè stesso, cadendo quasi
immediatamente in un sonno profondo nonostante le condizioni climatiche decisamente
sfavorevoli; doveva essere abituato a sopportare ben altro. Ben presto giacquero tutti
addormentati sotto la luna, con il vecchio lord Gredios che russava della grossa
spaventando gli animali notturni.
Il sorriso di Mirkon Solifald era come un fiore che tornasse a
sbocciare nel mezzo d'una landa desolata dopo secoli di siccità. Com'era strano che gli
uomini, i vecchi uomini amati dagli dèi luminosi, avessero dimenticato Bogoss, e che
invece i Nuovi invasori si ricordassero del gigante talmente bene da volerlo distruggere.
Esso era la più grande minaccia al loro incontrastato regnare, l'unica entità al mondo
capace di spaventarli, di sconfiggere le loro armi e le loro bestie. Li aveva visti,
Mirkon, attraverso un altro occhio sviluppatosi nella sua anima nel corso di secoli di
solitudine. Li aveva visti venir fuori da un monte nero come la pece, ed aveva tremato
scorgendo i visi inespressivi di cui era composta l'orda senza fine. Li aveva visti
combattere, armati di lame fantastiche per forme e dimensioni, a cavallo di belve
mangiatrici di fanciulli, ed aveva compreso che i vecchi uomini non avrebbero potuto mai
farcela. Non senza Bogoss.
Da tempo Mirkon Solifald non sorrideva, ma quella era un'occasione
speciale. I muscoli del suo volto, atrofizzati da ottomila anni di non-vita trascorsi a
vegliare il corpo inerte del titano di roccia, erano tornati a contrarsi, le labbra a
piegarsi verso l'alto, gli occhi a inumidirsi per la commozione. Bogoss aveva mosso una
delle enormi dita, grandi come il tronco d'una quercia centenaria. Pressochè
impercettibile, e tuttavia indubbio era stato il piccolo spostamento, pochi centimetri
sufficienti a rendere consapevole il millenario guardiano che la sua attesa stava per
terminare. Accostò la torcia alla guancia dell'uomo di pietra, sussurrandogli
all'orecchio con tutta la dolcezza di cui era ancora capace:
<< Presto ci conosceremo, mio vecchio amico. >>
III
Shuria guardò Tragga scomparire dietro una grossa roccia, impegnato
nel consueto giro di controllo del tardo mattino. Il sole era strano quel giorno, pensò,
anche se non avrebbe saputo spiegare cosa non la convincesse nella sfera di fuoco, alta
nel cielo completamente sgombro e magnificamente azzurro. Si costrinse a rivolgere altrove
i propri pensieri, e girò sui tacchi in direzione della grande costruzione di granito,
adagiata su di un avvallamento del bianco e sabbioso terreno della cava. La porta era un
singolo, enorme blocco di roccia che soltanto un Nuovo avrebbe potuto, non senza sforzo,
spingere via, rivelando l'entrata dalla loro casa. Come tutte le Nuove donne, Shuria era
forte al pari d'un maschio della propria razza, doppiamente intelligente e molto più
abile nell'uso del linguaggio e degli utensili che non servissero per uccidere. Conosceva
inoltre qualche parola dell'idioma dei vecchi uomini, e poteva capirlo e persino parlarlo
rozzamente. Appoggiò le muscolose, orribilmente tatuate braccia contro il blocco e lo
spinse da un lato, poi entrò nel cubicolo che faceva da anticamera e si richiuse la
pesante porta alla spalle. La stanza principale era costituita da un grande spazio
quadrato, illuminato da due finestre a sud e ovest, poveramente arredato con ciò che
costituiva l'essenziale per la sopravvivenza sua e di Tragga; un grosso letto di legno,
blocchi squadrati che fungevano da sedie e tavoli, ciotole di terracotta in cui mangiavano
brodaglia ricavata dalle radici di svariate piante. Le pareti erano tappezzate di armi
sconosciute e terrificanti. Una lancia lunga sei metri, rilucente come cristallo e più
dura del miglior acciaio, faceva mostra di sè occupando l'intera parete nord. Appena
sotto d'essa stava una spada che pareva esser stata forgiata dal diavolo in persona,
tant'era maligna la forma dell'incredibile e letale lama a doppio taglio. Il tavolo su cui
a fine giornata era solita riposare la frusta di Tragga era vuoto: Shuria cercò di
ricordare le volte in cui aveva veduto il proprio compagno andare in giro senza
l'abominevole, smisurato oggetto, ma la sua memoria non riuscì a regalarle una sola
immagine di lui senza il serpente di cuoio che gli si contorceva ai piedi, e scoprì
improvvisamente che la cosa non le piaceva. I suoi occhi corsero freneticamente alla
parete est, dove si posarono, con gratitudine, sui pugnali assurdamente ricurvi ch'erano
le sue armi preferite. " Falci di ghiaccio " li chiamava, due lame impossibili
da scalfire che le avevano fatto guadagnare molti onori in battaglia. Due armi molto più
dignitose, pensò, dell'orribile frusta che Tragga si trascinava dietro quasi fosse un
prolungamento del suo braccio.
Avevano meritato la missione ch'era stata loro assegnata, ma le cose
s'erano rivelate più difficili del previsto. La roccia della montagna era dura, e le
braccia degli schiavi così deboli, lente ed inette nello svolgere il proprio compito. E
intanto quel maledetto uomo di pietra avrebbe potuto destarsi da un momento all'altro.
Qualcosa di simile alla paura scosse le forti spalle di Shuria mentre s'avvicina alla
grande finestra ad ovest, che dava proprio sul versante più martoriato della montagna.
Nessuno schiavo in vista. La cosa poteva essere normale, dal momento che spesso Tragga li
spostava tutti in un unico punto, per concentrare gli scavi nelle zone in cui la roccia
pareva meno coriacea. Eppure, una sorta di sesto senso, un'intuizione tragicamente esatta,
le diceva che non era tutto a posto. Perchè non si sentivano i martelli picchiare contro
la pietra? Perchè neppure una belva carnivora era visibile a quell'ora, in cui di solito
erano si muovevano in branchi aspettando il pasto? Lo sguardo di Shuria volò di nuovo in
alto, verso il sole anomalo che incombeva sulla cava silenziosa, e che pareva farsi beffe
di lei tentando d'accecarla con i suoi raggi incandescenti. Con gli occhi che le
lacrimavano per il dolore la Nuova donna sostenne la sfida del disco luminoso,
rifiutandosi di distogliere lo sguardo. Ad un certo punto credette di distinguere una
figura vagamente antropomorfa al centro della sfera infuocata, ma proprio mentre stava per
realizzare di cosa si trattasse realmente la sua attenzione venne catturata da qualcosa
che si muoveva al margine del proprio campo visivo. Di nuovo quella sensazione, nuova per
lei. La paura, mai provata in battaglia, l'attanagliava adesso come un cappio, impedendole
di muoversi od anche solo di formulare con chiarezza dei semplici pensieri. Restò
immobile, fissando la scena che scorgeva dalla finestra. Sotto di lei, a centinaia,
piccole formiche avanzavano silenziosamente per sorprendere Tragga alle spalle.
Impugnavano i martelli, e sui loro volti sporchi e affranti si poteva leggere una nuova ed
incrollabile determinazione. Era tutto finito. In qualche modo dovevano aver scoperto
l'inganno, dovevano aver compreso che i loro aguzzini alla cava erano soltanto in due. Due
contro tremila. Un barlume di ragione le attraversò la mente ottenebrata dalla
disperazione, ed ella fischiò con quanto fiato aveva in corpo, richiamando a sè le belve
carnivore. Non era finita, le belve avrebbero divorato fino all'ultimo di quei maledetti
prima che i loro martelli potessero sfiorare lei o il suo compagno. Avrebbero chiesto
altri schiavi, cui avrebbero mostrato, come deterrente alla rivolta, i poveri resti dei
loro predecessori. Sì, si disse, avrebbero fatto proprio in quel modo.
Le belve non arrivarono. Sentì un gran trambusto alle sue spalle, e
ben presto si ritrovò ad impugnare le falci di ghiaccio, in attesa d'uno scontro oramai
più che prossimo. Alcuni degli schiavi, attirati dal suo fischio, s'erano staccati dal
gruppo ch'ella aveva veduto, e tentavano in quel momento di rimuovere il grosso masso che
fungeva da porta nell'abitazione di roccia rossa. Si guardò intorno, ed i suoi occhi
individuarono due possibili vie di fuga nelle finestre ad ovest e sud della stanza in cui
si trovava. Stava quasi per saltare giù quando s'accorse degli uomini che l'aspettavano
in basso, con i martelli già sollevati. Corse all'altra finestra, ma ugualmente la trovò
sorvegliata. Adesso la paura le faceva gridare oscure bestemmie nella sua incomprensibile
lingua, e fu con occhi da bestia che si parò di fronte al gruppetto di assalitori appena
entrato nella casa di roccia. Avevano rimosso, unendo le loro forze, il gran masso, e si
riversavano nell'anticamera brandendo i martelli e pregando i loro dèi affinchè gli
infondessero coraggio. Il primo d'essi cadde senza nemmeno accorgersene: una delle falci
di ghiacchio disegnò veloce un'ellissi nell'aria, staccandogli di netto la testa dal
collo. Gli altri iniziarono a menar fendenti a vuoto, a volte colpendosi vicendevolmente.
Shuria si chiese se fossero più spaventati di lei, mentre correva in mezzo a loro
roteando i pugnali con letale abilità, frutto d'una vita spesa nelle sale d'armi della
vecchia città sotterranea che le aveva dato i natali. Ne uccise due lanciandosi in volo
come una libellula dalle ali d'acciaio, un altro lo freddò con un doppio affondo al petto
mentre tentava di sollevare il suo martello. Vide il sangue imbrattare i muri, sentì le
urla disperate dei suoi patetici assalitori, e seppe d'essere in salvo quando si ritrovò
illesa al di fuori della propria abitazione, spossata dalla lotta ma assolutamente priva
del più piccolo graffio. L'eccitazione per lo scontro vinto lasciò presto il campo alla
consapevolezza della propria situazione. Di lì a un istante sarebbero arrivati altri
schiavi, e non poteva sperare di abbatterli tutti. Di nuovo, per un'ultima volta, volle
guardare il sole. Questa volta scorse subito la figura all'interno del gran disco
infuocato, e la riconobbe con terrore e rassegnazione. Era Sulia, la dèa luminosa amica
dei vecchi uomini, e rideva per la sua disfatta oramai imminente. L'ultimo pensiero di
Shuria, mentre fuggiva via dalla cava con tutte le energie che le rimanevano, fu per colui
ch'era stato il suo unico compagno: il guerriero chiamato Tragga, ch'ella stava
abbandonando al suo destino.
<< Chi sei? >> la voce di Bogoss faceva tremare l'anima
e la roccia. Il gigante si sollevò su di un gomito, raggiungendo l'altezza d'una torre di
quattro piani. Da quella posizione poteva guardare Mirkon, più piccolo d'una coccinella
al suo cospetto.
<< Mirkon è il mio nome >> rispose il vecchio guardiano
<< e per ottanta secoli ho vegliato su di te, per volere degli dèi di luce che
conducesti qui sulla tua fredda schiena. Essi furono costretti ad abbandonare questo
mondo, ma non si dimenticarono di te neppure nelle ore tragiche e convulse della loro
disfatta. Un giorno torneranno, e tu sarai con essi. >>
<< Cosa ti sta succedendo? >> il volto di marmo parve
oscurarsi. Preoccupazione, si sarebbe detto se si fosse trattato di un essere umano.
<< Sto morendo. >> Mirkon rispose << La luce che
ha brillato in me per ottomila anni sta ora esaurendosi rapidamente, ed io ne sono grato
agli dèi. Non v'è più ragione ch'io viva, adesso che la mia missione è compiuta, ed
essi mi concedono il meritato riposo. >> chiuse gli occhi, pronto a scivolare
nell'abbraccio di Sorella Morte, un incontro troppo a lungo rimandato.
<< Cosa gli dèi vogliono che faccia? >> chiese Bogoss.
Il tuono ch'era la sua voce ebbe il potere di trattenere, per un istante ancora, l'anima
di Mirkon dall' abbandonarsi all'oblìo << Cosa si aspettano da me? >>
<< I vecchi uomini attraversano tempi bui. >> il
sussurrare del guardiano era appena udibile, ed il gigante dovette avvicinarglisi per
comprendere << Aiutali se puoi. Gli dèi te ne saranno grati, quando torneranno.
>>
Spirò adagiandosi sul blocco freddo che gli era servito da sedia in
millenni di disperata, inimmaginabile solitudine, e l'interno buio della montagna venne
illuminato a giorno dalla luce che fuggiva via dal suo petto, come una stella che tornasse
a prendere il posto spettantegli nel firmamento.
<< Mi sarebbe piaciuto...parlare più a lungo. >> in
assurdo contrasto con tutte le leggi che lo animavano, l'uomo di roccia si sentiva triste.
Aspettò che il piccolo, vecchissimo compagno che lo aveva custodito durante il suo
millenario sonno gli rispondesse. Cosa era successo dopo la caduta degli dèi luminosi, e
che cosa stava arrecando sofferenza ai vecchi uomini? Doveva saperlo. Sfiorò con un dito
enorme il capo di Mirkon, più gelido della pietra stessa. Qualcosa scivolò via dalle
vesti del vecchio, qualcosa d'inutile che il guardiano aveva custodito per ottomila anni
come la più importante delle reliquie. Era la pergamena che avrebbe dovuto placare la
furia di Bogoss, una furia che non c'era.
<< Mirkon... >> mormorò ancora il gigante, invano. Non
vi era più vita nel corpo abbandonato al suolo, ma l'espressione del volto, assolutamente
serena, indicava che Mirkon Solifald era già al cospetto degli dèi che aveva servito per
così tanto tempo.
<< Non li tratterremo ancora per molto! >> urlò Lych,
madido di sudore. Dalla costruzione in legno ch'era l'enorme stalla delle belve carnivore
proveniva ogni genere di suono demoniaco, quasi gli uomini stessero cercando d'impedire
alle legioni dell'inferno d'invadere il mondo della luce. Cinquecento schiavi pressavano
la grande porta della baracca, tenendo prigionieri i mostri in attesa che i loro compagni
si liberassero di Tragga e Shuria. Le bestie ululavano orribilmente, ed i tremendi impatti
che di tanto in tanto scuotevano la costruzione indicavano che molte d'esse si lanciavano
contro le assi, tentando di sfondarle. Le forze delle formiche erano al limite, ma cedere
non era un'opzione da prendere in considerazione, se non si voleva finire tra le fauci di
quegli orrori.
Darlien era nelle ultime file, insieme agli uomini meno forti.
Poteva vedere la schiena di Lych alcuni metri avanti a sè, circondata da quelle di decine
di compagni stremati che urlavano per darsi coraggio. Si chiese cosa dovevano provare
quelli della prima fila, praticamente faccia a faccia con le belve, ed in più con sulle
spalle il peso gravante dell'intera barriera umana; pregò per loro, nella sua mente,
mentre sul collo sentiva l'alito caldo dell'uomo che gli stava dietro.
<< Non mollare, ragazzo, o siamo perduti! >>
Non avrebbe mollato. Mai, finchè avesse avuto vita in corpo. Chinò
la testa, tentando d'imprimere più potenza alla propria spinta, pressando con le braccia
la schiena del compagno che aveva dinanzi. Vide un uomo non più giovane che si accasciava
al suolo, spossato come un cavallo da tiro; non c'era quasi più aria respirabile
nell'immane calca, solo polvere che intasava i polmoni e faceva bruciare gli occhi.
<< Non mollare, non mollare! >> ancora l'uomo alle sue
spalle. Stava incitando sè stesso, non Darlien, e pareva che funzionasse, perchè riprese
a spingere con più vigore. Per quanto ancora avrebbero retto? Il mare di schiene e
braccia, di gambe e di teste chine per lo sforzo si sarebbe presto aperto sotto l'urto
tremendo delle belve in trappola, ed allora sarebbe stata la fine di tutto.
<< Gens! >> urlò Lych, adesso invisibile a Darlien.
<< Gens! >> risposero dieci voci, all'unisono. Era un
altro espediente per darsi coraggio: Gens stava affrontando Tragga insieme a quelli che
non si trovavano là.
<< Gens! >> fu anche il grido di Darlien, perso in
quello di cento e più altre voci appartenenti all'unico corpo indistinto che ancora
riusciva a tenere prigionieri i mostri. Gens avrebbe udito, e non li avrebbe delusi.
Le donne formavano un ampio cerchio in quello ch'era lo spazio più
esteso della cava, appena ai piedi del versante settentrionale della montagna martoriata
dagli scavi. Erano centinaia, tutte immobili e silenti come statue di sale, le chiome
bionde o brune agitate da un insolito vento, accorso a presenziare l'atto finale della
piccola storia. Alcune piangevano, ma i loro visi erano ugualmente freddi, i loro occhi
ugualmente carichi di risolutezza. E questo al Nuovo Uomo non piaceva. Tragga era il
centro dell'insolito cerchio, la sua frusta lo affiancava in quella ch'era una lotta
disperata condotta da disperati. Gli si scagliavano addosso in gruppi di otto o dieci,
brandendo i martelli ch'erano le loro uniche armi, e tutti avevano quel dannato sguardo,
quegli occhi carichi d'odio indicibile per lui e la sua razza.
<< Muori, maledetto! >> urlò uno schiavo, e gli si
lanciò contro schiumando rabbia. La frusta parve muoversi autonomamente dalla volontà
del suo padrone, e in un secondo un fiotto di sangue investì Tragga in pieno viso. Sputò
quello che gli era finito in bocca, guardando il suo assalitore contorcersi al suolo. Non
aveva più le gambe; la frusta gliele aveva tranciate di netto, come fossero arbusti
rinsecchiti. Una donna, nel cerchio, urlò qualcosa; una delle sue compagne la
schiaffeggiò per farla smettere. Non volevano apparire disperate ai suoi occhi, pensò
Tragga. Volevano morire con dignità. Non aveva mai considerato i vecchi uomini capaci di
un comportamento come quello; li aveva sempre ritenuti un popolo codardo e privo di forza
d'animo. I suoi capi gli avevano detto che la schiavitù avrebbe piegato le deboli
velleità di rivalsa di quella gente, ed invece le aveva rafforzate fino a spingerla ad
insorgere. Altri schiavi entrarono nel cerchio, tentando di circondarlo. Uno d'essi era un
ragazzino a malapena capace di reggere il grosso martello che impugnava con mani tremanti.
Tragga lo guardò, dimenticandosi degli altri, e scoprì che non voleva ucciderlo. Stava
succedendo qualcosa, qualcosa che lo avrebbe reso debole. Non poteva ormai più
considerare i vecchi uomini alla stregua di bestie da lavoro, inferiori persino ai mostri
carnivori che cavalcava. Non poteva più ucciderli mostrando la noncuranza con cui si
schiaccia una formica, perchè formiche non erano, ma esseri al pari di lui e Shuria.
Shuria. Dov'era la sua compagna, mentr'egli fronteggiava la
disperata rabbia degli schiavi ribelli, tormentato da dubbi che mai avevano nemmeno
lontanamente sfiorato la sua coscienza? Rimembrò le battaglie che avevano combattuto
fianco a fianco, assolutamente dimentico del pericolo che stava correndo, e la sua mente
vagò a ritroso nel tempo, rievocando il tempo in cui...
La mazzata che s'abbattè sul suo capo lo riportò traumaticamente
alla realtà. Uno degli uomini alle sue spalle l'aveva centrato in pieno, spaccandogli il
cranio tatuato. Assaporò il proprio sangue, così diverso da quello dello schiavo ucciso
poco prima. Qualcuno incitò i combattenti. Timidi canti di augurio si levarono dal
cerchio, intonati da voci sottili e tremanti per l'emozione. Di nuovo la frusta tacitò
qualsiasi speranza, ma questa volta fu lui a comandarla. La fece schioccare sulle schiene
dei nemici con mortale velocità, trapassandoli come fossero fatti di carne putrida,
decapitandoli, martoriando i loro corpi incapaci di resistere a tanta potenza. Alla fine
restò in piedi solo il ragazzino, in lacrime con gli occhi fissi nei suoi. Altri uomini
entrarono nel cerchio, mentre Tragga iniziava a vedere i contorni delle cose in maniera
curiosamente sfocata. Il sangue gli stava colando sugli occhi, e cominciava a sentirsi la
testa stranamente leggera. Perchè Shuria non accorreva? Era morta, forse? Sciocchezze.
Nessuno di quei miserabili poteva ucciderla. Nessuno poteva uccidere lui. La frusta lo
protesse da un altro tremendo fendente che stava per abbattersi sul suo capo, strappando
il martello dalle mani di un vecchio uomo e scagliandolo lontano; poi calò dall'alto sul
malcapitato con una violenza assolutamente inaudita, dividendolo in due con perfezione
chirurgica. Gli altri restarono interdetti per alcuni istanti, atterriti da una tale prova
di forza. Tragga li fissò lungamente, soffermando lo sguardo gelido su ognuno di loro.
Erano assolutamente insignificanti, pensò, in quella loro ridicola pantomima di ribelli
che non avrebbe retto ancora a lungo. Uno solo d'essi gl'incuteva un certo rispetto,
dovuto al fatto ch'era alto quasi quanto lui e similmente robusto nella muscolatura. Lo
soppesò a lungo, mentre la frusta muoveva le enormi spire come un serpente pronto a
scattare in avanti. Si chiese quale fosse il nome di quello schiavo, sorprendendosi d'una
tale sciocca curiosità; fu il vento a portarglielo, urlato da centinaia di voci lontane
provenienti da est, dalle stalle delle belve:
<< Gens! >>
Altri schiavi entrarono nel cerchio. Cominciavano a diventare
troppi.
<< Gens! >>
Tragga sentì la frusta irrigidirsi nel palmo sudato, invitarlo al
massacro. Egli esitava.
<< Gens! Gens! >>
Tre uomini gli saltarono alle spalle, urlando. Altri due lo
attaccarono frontalmente. La frusta saettò impazzita nell'aria, ma non trovò nulla da
tranciare, e rimpiombò a terra sollevando una nube di polvere spessa come nebbia di
palude. Tragga la lasciò andare, deciso a servirsi delle proprie mani. Afferrò il collo
di uno degli aggressori e premette, incurante degli altri quattro che tempestavano la sua
schiena con una foga figlia del terrore, urlandogli contro ogni tipo d'insulto. Quando
sentì la vita fuggire via dal corpo dell'uomo lo lasciò andare, e questi s'abbattè al
suolo come un fantoccio, gli occhi ormai ciechi fissi al cielo. Si voltò, rapido come una
pantera, verso gli altri, e scorse la paura nei loro occhi. Esitarono, e fu la loro fine.
Afferrò i loro volti sconvolti dal terrore e vi piantò dentro le dita, imponendosi
d'ignorare le urla raccapriccianti. Fu sorpreso del tempo che quegli esseri inferiori
impiegavano a morire, e di nuovo un senso di rispetto per quei disperati, improvvisati
guerrieri s'impossessò di lui. E di nuovo, l'aver indugiato in quei pensieri, gli
risultò estremamente dannoso. Qualcosa si avvinghiò alla sua gamba destra, e prima che
potesse rendersi conto di cosa si trattasse sentì la carne che veniva strappata dal
polpaccio; urlò, cercando la frusta con occhi resi ciechi dal dolore e dalla rabbia. La
trovò: l'oggetto malvagio fu felice d'essere di nuovo un tutt'uno con il proprio padrone.
Tragga vide il grosso schiavo che correva verso di lui, vide altri uomini entrare nel
cerchio sempre più stretto, ma non vide ciò che gli serrava la gamba. Soltanto dopo che
la frusta si fu abbattuta sull'assalitore, riducendolo in fin di vita, realizzò che si
trattava del ragazzino tremante che gli aveva ispirato - ora lo sapeva - una sorta di
sentimento simile alla pietà. Giaceva al suolo, immobile eppur ancora vivo, le mani
bianche protese verso di lui, quasi a volerlo ghermire a dispetto delle proprie
condizioni. Cosa avesse spinto un così giovane ragazzo a staccare a morsi un pezzo della
gamba del proprio aguzzino, ben sapendo d'andare incontro a morte sicura, era cosa che un
Nuovo, pragmatico essere come Tragga mai avrebbe potuto comprendere. La sua mente, già
offuscata dal dolore per la grossa ferita al capo, stava per cedere sotto il peso delle
domande ch'egli non sapeva evitare di porsi, affascinato com'era da tutto ciò che i suoi
nemici stavano insegnandogli quel giorno. Gens lo colpì in pieno petto, scaraventandolo
al suolo. Si rimise in piedi tossendo sangue, curvo sotto i colpi degli altri schiavi, i
quali dovevano vedere finalmente vicina la vittoria sull'odiato nemico. Li allontanò
roteando la frusta, ma non ne ferì nemmeno uno. Non voleva più, adesso che il giovane
ragazzo stava esalando gli ultimi convulsi respiri, con il petto squarciato che si alzava
e abbassava come un mantice. Stette a guardarlo a lungo, imponendo alla mostruosa frusta
di non muoversi. Da est giunse il fragore di assi che crollavano. Nessuno parve prestarvi
attenzione.
Cedette di schianto. Il frastuono delle assi che si spezzavano al
passaggio del branco infernale si confuse con il rumore delle ossa frantumate, mentre da
una nuvola di polvere emergevano le creature che cinquecento valorosi avevano invano
tentato di trattenere. Lych e Darlien furono tra gli ultimi a cadere, investiti dall'orda
che come un gigantesco carro da battaglia schiantava tutto ciò che gli si parava davanti
senza rallentare d'un passo. Vennero sbalzati a dieci metri dal tremendo impatto e poi,
prima che potessero anche solo rendersi conto di ciò ch'era accaduto, furono calpestati
da centinaia di zoccoli frenetici, mentre le urla dei compagni riecheggiavano alte nel
cielo. Quando la polvere si disperse ciò che rimaneva del gruppo che aveva tentato la
disperata impresa era una catasta di corpi squassati e inerti, disseminati in un raggio di
seicento metri. Molti erano a brandelli, altri peggio ridotti ancora. Qualche sventurato
era ancor moribondo, e pregava gli dèi affinchè gli concedessero una rapida dipartita,
ponendo fine ad un'insopportabile agonìa. Nessuno di quei cinquecento si salvò. Avevano
retto finchè avevano potuto, poi le bestie demoniache avevano avuto ragione delle loro
residue forze. Il sole, ancora alto nel cielo, pianse per la loro sorte, maledicendo i
Nuovi Uomini ed il giorno in cui erano comparsi per arrecare sventura alla razza umana.
Il ragazzo morì gorgogliando qualcosa che a Tragga suonò come una
minaccia. L'imponente schiavo che chiamavano Gens s'inginocchiò in lacrime e lo strinse
al suo petto, mentre tutti gli altri non perdevano di vista il Nuovo Uomo. Uno strano
pensiero balenò nella mente di Tragga, mentre cercava invano di distogliere lo sguardo
dal corpo senza vita del ragazzino: aveva ucciso centinaia di vecchi uomini, ma mai ne
aveva veduto uno morire. Adesso che l'agonìa di uno d'essi aveva distrutto le barriere
dietro le quali la sua razza s'era trincerata per divenire un popolo di perfette macchine
da guerra, sapeva ch'era finita. Non per i suoi simili, ma per lui solo. Gli altri
avrebbero continuato a vedere i vecchi uomini come animali inferiori e privi d'onore,
portando avanti il progetto di conquista del mondo della superficie incuranti dei cadaveri
che si ammucchiavano ai loro piedi. Ma lui non poteva più farlo, perchè aveva veduto il
ragazzo morire. Non poteva più combattere, di conseguenza era divenuto inutile alla causa
per cui il suo popolo lottava, e doveva morire. Lasciò cadere la frusta, che si
attorcigliò spaventosamente su sè stessa, consapevole di aver esaurito il proprio
compito. La gente rimase a guardare, timorosa e stupita. Quando il grosso Gens ebbe pianto
abbastanza si girò alla volta del Nuovo Uomo. Nel suo sguardo v'era una nuova sfumatura
di follia.
<< Era mio figlio. >> disse, ma Tragga non poteva
capire. Si limitò ad indicare il martello, e poi la sua testa, sperando che lo schiavo
comprendesse. E Gens comprese. Con un singolo, potentissimo colpo di martello, ed urlando
il nome di Imer, divelse la testa tatuata dalle muscolose spalle, scagliandola lontano.
Nessuno osò abbandonarsi a festeggiamenti sfrenati; il dolore di Gens meritava rispetto,
e in secondo luogo non si poteva essere sicuri d'aver ucciso un diavolo come Tragga. Il
corpo acefalo era rimasto in piedi, destando più di un timore che potesse rimettersi in
movimento da un istante all'altro.
Così non fu, ma ugualmente i vecchi uomini dovettero rimanere
immersi nell'abisso della paura; fu il rombo di centinaia di zampe amorfe a scuotere i
loro animi, precipitandoli nuovamente in quel panico da cui s'erano appena liberati.
Rimasero tutti paralizzati dal terrore, consapevoli che quella che s'avvicinava tonando
non era una tempesta, ma qualcosa di ben peggiore che avrebbe reso vani i sacrifici patiti
per guadagnarsi la libertà.
<< Via di qui! >> gridò qualcuno, lanciandosi in una
disperata quanto inutile fuga nella direzione opposta a quella da cui proveniva l'immane
galoppare. Gens non fu tra quelli che scapparono. Nuovamente si chinò ad abbracciare
Imer, il suo coraggioso, unico figlio. Il corpo era già freddo, e così pallido il volto
dove i primi peli della virilità avevano appena iniziato a spuntare. Sarebbe morto
accanto a suo figlio, mentre intorno a lui si scatenava l'inferno.
I mostri sbucarono da dietro una roccia correndo ad una velocità
spaventosa. Occhi ripugnanti si fissarono su Gens, solo al centro della distesa di pietra
con il cadavere tra le braccia.
<< Geeens! >> chiamò qualcuno alle sue spalle, ma Gens
aveva fatto la sua scelta. Molte donne urlarono, strattonate a forza dai mariti che ancora
s'illudevano di poter trovare, da qualche parte, un rifugio. Le bestie infernali erano a
non più di cinquanta metri da Gens, quando la montagna cominciò a tremare. Dapprima gli
animali non arrestarono la propria corsa, accecati dall'odio e dalla fame, ma quando le
rocce iniziarono a schizzare nel cielo come stelle cadenti il branco si disperse,
terrorizzato. Gens era là, inginocchiato e attonito, e fu il primo testimone del prodigio
che seguì. Il versante della montagna si spaccò letteralmente, e mentre tonnellate di
pietra e polvere si abbattevano al suolo con un fragore di gran lunga superiore a quello
provocato dalla corsa delle belve, un titano di granito emerse dalle viscere della terra,
spaventoso e stupendo nella luce del tramonto. Una delle gigantesche mani lanciava enormi
rocce all'indirizzo dei mostri carnivori, i quali tentavano inutilmente di scalfire la
pietra millenaria di cui era composto il nuovo nemico; l'altra era aperta, e nella
smisurata palma recava un vecchio disteso faccia al cielo, le braccia incrociate sul
petto. Era morto.
<< Dèi del cielo >> Gens non riusciva a credere a ciò
che stava vedendo con i propri occhi. Il titano di pietra schiacciò le belve sotto il suo
incalcolabile peso, e quando nemmeno uno di quegli abomìni fu rimasto in vita i suoi
piedi, da candidi come la neve, eran divenuti rossi come il sole che salutava la vittoria,
scomparendo dietro i monti grigi e minacciosi. Alcuni degli schiavi fuggiti a nascondersi
tornarono lentamente sul gran spiazzo, adesso ingombro dei corpi senza vita dei mostri
carnivori. Ben presto furono di nuovo tutti là, attendendo che l'uomo di pietra facesse o
dicesse qualcosa che potesse confortarli. Era dalla loro parte, questo era fuor d'ogni
dubbio.
<< Ora siete liberi. >> disse al fine il gigante
<< Io devo andare. >>
La delusione calò negli animi dei vecchi uomini. Molti sguardi si
abbassarono al suolo, disperati.
<< Senza il tuo aiuto saremo nuovamente schiavi nel giro di
pochi giorni. >> ribattè Gens << Devi aiutarci a sconfiggerli tutti, o tutto
questo sarà stato inutile. >>
Lungo fu il silenzio che seguì le parole di Gens, ma alla fine il
gigante di marmo lasciò gli uomini con una speranza:
<< Quest'uomo si chiama Mirkon >> disse, indicando il
vecchio disteso nel suo palmo << ed ha vegliato su di me per un tempo che voi
mortali nemmeno riuscireste a immaginare. E' ora ch'egli abbia la sepoltura che merita,
nel giardino delle lucciole dove soltanto i giusti riposano. Dopo averlo portato là
tornerò da voi per aiutarvi, ma non so quanto ci vorrà. Non sono ancora nel pieno delle
forze, dopo tanto tempo passato senza muovermi. >>
<< Parti subito allora. >> disse Gens, rinfrancato
<< Noi intanto vedremo di arrangiarci. Dico bene? >> quest'ultima domanda fu
rivolta ai suoi compagni.
Grida di giubilo e inni alla speranza giunsero in risposta dalle
formiche ch'erano tornate ad essere uomini. Le coppie che la morte non aveva diviso si
abbracciarono, coloro che avevano combattuto ringraziarono gli dèi per essere ancora in
vita. Gran fuochi di festa vennero accesi in tutta la cava, ed in alcuni d'essi vennero
bruciati i cadaveri delle orribili bestie uccise da Bogoss, il titano ridestatosi nella
montagna. La notte pareva stupenda, e la sagoma del gigante che volava contro la luna
affascinò più d'un animo sensibile, infondendo speranza nei cuori dei sopravvissuti alle
lotte di quella giornata. Il mattino seguente avrebbero seppellito i loro morti, tra cui i
cinquecento coraggiosi che, ritardando l'assalto delle bestie, avevano permesso agli altri
di avere ragione di Tragga. Gens, tuttavia, non aspettò l'alba. La buca che scavò sotto
le stelle giaceva ai piedi dell'unico albero nato nella rossa ed arida distesa di rocce
dove il suo ragazzo aveva trovato una fine prematura, e gli parve il luogo migliore dove
lasciarlo riposare. Pregò a lungo, e il nuovo giorno lo sorprese addormentato accanto
alla tomba, con le mani ancora giunte ed un espressione di pace dipinta sul volto.
Epilogo
<< Dite dunque che la cava è ad un sol giorno di cammino?
>> chiese di nuovo Elshan. L'ansia di tradurre in azioni ciò che finora aveva
soltanto predicato lo attanagliava sempre maggiormente man mano che s'avvicinava il
momento fatidico. Lo straniero incappucciato si limitò ad annuire vigorosamente, sempre
molto attento a non rivelare nemmeno un centimetro della propria pelle. Calzava guanti di
strana pelle, e la tunica che indossava gli copriva abbondantemente il corpo ed i piedi;
il cappuccio era chiuso in maniera da non permettere a nessuno di scorgere il viso. I tre
compagni del giovane d'Arenai guardavano con sospetto al vagabondo, ma Elshan lo
considerava soltanto un innocuo, stavagante personaggio che doveva portarsi appresso un
gran carico di misteriose bizzarrie. Probabilmente temeva la luce, od il contatto con i
suoi simili, oppure aveva fatto voto agli dèi di non rivelare il proprio aspetto. Ciò
che importava, comunque, era che dicesse la verità sulla cava.
Quando il sole fu calato i quattro compagni di viaggio si riunirono
intorno al fuoco, consumando i resti di alcuni topi selvatici catturati il giorno prima.
Il vagabondo taciturno pareva addormentato, e giaceva su di un fianco a una ventina di
metri. Era sempre molto schivo e pareva infastidito particolarmente dalla vicinanza di
lord Gredios.
<< Ti dico che è una donna! >> quasi gridò Calliwan
Rhodax. Il risentimento che provava nei confronti di Elshan era comprensibile: non avrebbe
più camminato normalmente.
<< Come fai a saperlo? >> il giovane uomo di Arenai si
sforzò d'opporre fermezza e calma alla crescente ira del proprio interlocutore.
<< Pezzo d'idiota! >> Orin Fannings dovette placcare
Calliwan prima che afferrasse il bavero di Elshan << Guardala bene. Guarda le forme
di quel saio della malora, e te ne accorgerai anche tu. >>
Elshan rimase in silenzio. Era solo l'astio che dava fiato allo
zoppo, oppure c'era del vero nelle sue parole?
<< Se anche fosse una donna non sarebbe un pericolo per noi.
>> ribattè dopo un poco. Lord Gredios ruttò sonoramente; stava per addormentarsi.
Orin e Calliwan parevano attestati sulla stessa posizione.
<< Una donna non vaga da sola, in un mondo come questo.
>> Orin tentò di portare Elshan alla ragione << Inoltre devi ammettere come
sia decisamente strano il fatto che non voglia proferire parola nè mostrare nemmeno un
dito del proprio corpo. Elshan, non possiamo portarla con noi. >>
<< Ammazziamola adesso. >> propose Calliwan, ed i suoi
occhietti cattivi brillarono di ferocia alla luce della costellazione del Kraken. Elshan
respinse la proposta con un gesto veloce della mano.
<< Non se ne parla. >> disse << Se ritenete che
sia un pericolo, allora voglio sincerarmene di persona. Andrò io stesso a parlarle,
domani all'alba, e vedrò di farmi dire qualche cosa. >>
<< Domattina potrebbe essere troppo tardi. >> ribattè
enigmatico lo zoppo. Contraddire Elshan era il suo passatempo preferito. Orin lo tacitò
con uno sguardo: << Domattina va bene. >> disse il nobile Fannings <<
Ora sarà meglio andare a riposare. >>
Il sole non era ancor sorto quando Elshan fu destato da un presagio
oscuro, un sogno che sfumò nella memoria appena egli aprì gli occhi. Il misterioso
vagabondo era in piedi a pochi centimetri da lui, sorpreso dal suo risveglio nell'intento
di compiere qualche cosa di poco chiaro.
<< Chi sei? >> chiese il giovane uomo. Aveva già
rivolto altre volte quella domanda allo sconosciuto, e non si aspettava risposta. Così
fu.
<< Sei una donna? >>
Un'esitazione, poi il deciso gesto d'assenso. Calliwan aveva visto
giusto. A questo punto Elshan aveva esaurito le domande. Il fatto che sotto la cappa nera
si celasse una donna, che non volesse parlare nè mostrarsi, non implicava necessariamente
un pericolo per loro.
<< Hai paura? >> domandò dopo un pò << Non devi
averne. >> aggiunse senza aspettare risposta. Istintivamente avvicinò il proprio
corpo a quello della donna celata, stringendola. Voleva dimostrarle di non essere ostile,
voleva che sentisse la sua fiducia. O forse stava soltanto obbedendo ad un istinto, non
poteva dirlo con chiarezza assoluta. Non riusciva a pensare liberamente, adesso che
percepiva le forme inequivocabilmente femminili sotto la stoffa che gliele aveva nascoste
fino a pochi istanti prima. Era alta, molto alta per essere una donna, ed aveva uno strano
profumo. Cercò le sue labbra, non trovandole, e s'accontentò d'una guancia liscia e
fredda come neve.
L'urlo che seguì ebbe il potere di scagliarlo all'indietro,
completamente atterrito dall'inumanità di cui era pervaso. Vide dibattersi due figure,
una delle quali era certamente la donna incappucciata che aveva stretta tra le braccia un
momento prima; l'altra pareva una belva sanguinaria che l'azzannava al collo, in un
inferno di grida bestiali e grugniti di rabbia che fermavano il sangue nelle vene. Alla
fine il vecchio lord Gredios mollò la presa, le fauci lupesche grondanti sangue. Sembrava
soddisfatto di sè, e ricevette i complimenti del nipote Orin, il quale lo premiò con una
mela. La donna era morta, attorno a lei una macchia nera s'allargava a velocità
disgustosa. La sua gola non esisteva praticamente più.
<< Cosa...cosa ha fatto? >> Elshan era furibondo,
sorpreso, incredulo.
<< Guardala bene Elshan. >> la voce di Orin era bassa,
grave.
<< Perchè mai l'ha...vecchio pazzo! >>
<< Guardala, per gli dèi. >>
La guardò, vincendo il ribrezzo, ricacciando via lacrime di rabbia
amare come veleno. Nella lotta disperata aveva perso il saio, ed anche i guanti. Era
tatuata dalla testa ai piedi, muscolosa come il più prestante dei guerrieri. Nella mano
sinistra stringeva ancora una orribile lama di pugnale ricurva in modo incredibile. Lo
sguardo di Elshan si fissò sull'oggetto di morte.
<< Ti avrebbe ucciso con quello, mentre tu ti dilettavi a
sbaciucchiarla. >> il sarcasmo di Calliwan era il minimo che uno stolto come lui
potesse meritarsi. Finire tra le braccia d'un Invasore, offrire il petto alle sue armi,
soltanto in ossequio ad un istinto cui era stato incapace di resistere. Abbassò il capo,
afflitto dalla propria stupidità.
<< Grazie, lord Gredios. >> fu tutto ciò ch'ebbe da
dire << Vi devo la vita. >>
Il vecchio lupo cadente rise tremendamente, elargendogli un'energica
pacca sulla spalla. Nonostante tutto era un bel momento.
Era da poco trascorso il mezzogiorno quando all'orizzonte si
profilò la gran montagna ai piedi della quale doveva sorgere la cava di pietra. Elshan
esortò i compagni a procedere con passo più spedito: ora che aveva veduto morto uno dei
nuovi, sapeva che potevano essere uccisi come chiunque, e non stava più nella pelle.
L'immagine di suo padre tornò a visitarlo; era sorridente per la strada che suo figlio
aveva scelto di percorrere. Sarebbe diventato una specie di leggenda vivente, il
vendicatore dei vecchi uomini. Avrebbe liberato la cava e goduto dell'eterna riconoscenza
degli schiavi strappati al giogo.
Nulla di ciò si realizzò. A metà strada s'imbatterono in una
moltitudine di uomini e donne che avanzava nella direzione opposta alla loro, sporchi e
male in arnese come uomini-avvoltoio, ma inequivocabilmente festanti. Molti d'essi
impugnavano martelli che levavano al cielo, insieme a grida di vittoria e bestemmie
all'indirizzo degl'Invasori. Frastornati, Elshan e compagni chiesero loro informazioni
sulla cava e sui Nuovi che vi dimoravano.
<< Non c'è più nulla di vivo alla cava. >> rispose uno
degli ex-schiavi. Il suo martello era sporco di sangue.
<< Che fine hanno fatto gl'Invasori che...per gli dèi!
>> Elshan d'Arenai non potè trattenere l'esclamazione. Qualcuno, tra la folla,
aveva innalzato un lungo palo sulla sommità del quale stava infilata la testa tatuata di
un Nuovo uomo. Aveva occhi e bocca spalancate, ed un lato del cranio era letteralmente
sfasciato, segno della tremenda potenza con cui era stato colpito. Enormi mosconi verdi
non cessavano di tormentare il macabro trofeo. Elshan e compagnia non sapevano se gioire o
provare delusione: avevano creduto d'essere la scintilla destinata ad innescare la
riscossa, ed invece il fuoco era divampato senza il loro contributo. Certo, avevano ucciso
un Invasore, ma si era trattato di una casualità, e per poco non ci rimettevano la pelle.
Restava poco da fare se non riconoscere la vittoria degli schiavi e gioire con essi.
<< Volete unirvi a noi? >>
Elshan fissò lungamente l'imponente figura che aveva parlato, e vi
riconobbe il capo carismatico dei ribelli.
<< Cosa farete adesso che siete liberi? >> gli chiese
dopo un istante. L'uomo sorrise sardonico, carezzando il martello.
<< Faremo rotolare molte altre teste tatuate. >>
rispose. Alle sue spalle si levarono urla di approvazione.
<< Suppongo che dovremo sottostare al tuo comando, se ci
uniamo a te. >> intervenne Orin, cui l'idea non piaceva granchè << Sono Orin
Fannings, e sono stato istruito a condurre, non a seguire. >>
Il silenzio che seguì fu appropriatamente spezzato dal grosso
schiavo, che non raccolse la provocazione:
<< Il mio nome è Gens Kastrid, e vi dico che molto presto vi
saranno così tanti eserciti ribelli che potrete certamente comandarne uno, vostra
maestà, se dimostrerete di averne l'attitudine. Adesso, volete seguirci o preferite
continuare il vostro cammino in regale solitudine? >>
La risposta non ebbe bisogno di parole. I quattro si unirono
all'armata dei martelli, stringendo mani e ricevendo amichevoli abbracci dagli uomini e le
donne che la formavano. Lord Gredios trovò opportuno presentarsi tastando molto poco
nobilmente il fondoschiena di qualche fanciulla, suscitando l'ilarità di più d'un
astante. Quando ripresero la marcia Elshan sapeva di aver preso la decisione giusta: da
solo non avrebbe mai potuto realizzare ciò che lo attendeva ora che s'era unito ai
ribelli della cava. Presto avrebbe comandato una sua legione, e sarebbe passato alla
leggenda come aveva sempre sognato. |